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Reati ambientali e responsabilità 231: la gestione illecita di rifiuti

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Reati ambientali e responsabilità 231: la gestione illecita di rifiuti

La Cassazione ha recentemente emesso un’interessante pronuncia in tema di responsabilità degli enti per illeciti ambientali, per chiarire quando può ritenersi realizzata l’attività non autorizzata di recupero di rifiuti di cui all’art. 25-undecies del Decreto (sentenza del 12 settembre 2023 n. 37114/2023). 

In particolare, secondo la Corte il reato di cui all’art. 256, comma 1, TU Ambiente, ha natura permanente; pertanto, l’attività non autorizzata di recupero di rifiuti è da considerarsi protratta sino all’interruzione della condotta illecita, “da individuarsi con l’ottenimento dell’autorizzazione, ovvero con la definitiva cessazione della specifica attività gestoria di recupero”.

1.    Il caso.

La vicenda riguardava un’attività di recupero di rifiuti non autorizzata e, in particolare, il deposito di rifiuti in un’area non autorizzata prospiciente l’impianto gestito dalla società ricorrente ed imputata ai sensi del D.lgs. 231/2001.

In particolare, si contestava al capo di imputazione, in relazione al quale è stata affermata la responsabilità amministrativa della società ricorrente, plurime condotte di illecita gestione dei rifiuti, essendo stato mosso addebito agli amministratori della stessa per aver effettuato un’attività di recupero in mancanza della prescritta autorizzazione, e per aver depositato nell’area prospiciente l’impianto di recupero rifiuti non autorizzata per tale attività tre cumuli di rifiuti speciali (terre e rocce da scavo frammiste a materiale antropico;

rifiuti di cemento; sabbia frammista a teli in materiale plastico).

Avverso detta sentenza, a mezzo del difensore fiduciario costituito procuratore speciale, la società ha proposto ricorso per cassazione deducendo l’erronea applicazione degli artt. 25-undecies, 60 e 67 d.lgs. 231/2001 e 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 per non essere stata rilevata l’improcedibilità dell’azione esercitata contro l’ente dopo l’intervenuta prescrizione del reato presupposto.

Invero, secondo il ricorrente, trattandosi di reato istantaneo concernente il deposito dei tre specifici cumuli di rifiuti indicati in imputazione, consumato già alla data del 5 agosto 2013, l’esercizio dell’azione nei confronti dell’ente era tardivamente avvenuto il successivo 7 ottobre 2017, mentrela sentenza impugnata aveva impropriamente affermato la natura permanente del reato richiamando giurisprudenza concernente la diversa ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti, condotta nella specie non contestata e neppure idonea a fondare la responsabilità amministrativa degli enti. Benché il capo d’imputazione facesse anche riferimento alla condotta di deposito, doveva ritenersi contestata un’attività di recupero rifiuti non autorizzata.

2.    Il ragionamento della Cassazione.

La Suprema Corte, rispetto alla prescrizione dell’illecito amministrativo da reato ai sensi dell’art. 60 d.lgs. n. 231 del 2001, che prevede la decadenza dalla contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato quando quest’ultimo sia estinto per prescrizione, reputa tale fattispecie non possa dirsi integrata.

Innanzitutto, il Collegio osserva come, in aderenza a quanto espressamente sostenuto nello stesso ricorso, la condotta contestata al capo d’imputazione vada qualificata, in conformità alla esplicita descrizione dell’addebito, quale attività di recupero non autorizzata, ed in particolare quale attività di “messa in riserva” di cui alla voce R13 dell’Allegato C alla Parte quarta del d.lgs. 152/2006.

Una volta che la Cassazione ha correttamente inquadrato la vicenda fattuale contestata in imputazione quale ricostruita dai giudici di merito, viene osservato come il reato che ha nella specie originato la responsabilità amministrativa della ricorrente sia certamente qualificabile come permanente, ancorché trattisi di condotta differente da quella di deposito incontrollato di rifiuti cui si riferiscono i principi giurisprudenziali sul punto richiamati dalla sentenza impugnata.

In particolare, integrando la motivazione del provvedimento impugnato, il Collegio evidenzia che la consumazione del reato de quo, come detto consistito in un’attività non autorizzata di recupero di rifiuti sub specie di messa in riserva, si protrae sino all’interruzione della condotta illecita, da individuarsi con l’ottenimento dell’autorizzazione, ovvero con la definitiva cessazione della specifica attività gestoria di recupero (per l’affermazione della natura permanente dell’analoga condotta di stoccaggio di rifiuti non autorizzata, v. Sez. 3, n. 39373 del 14/04/2015, Celi e aa., Rv. 264714, ove si è affermata la protrazione della consumazione sino alla rimozione della situazione di fatto abusiva).

Del resto, osserva la Corte “le condotte illecite in tema di rifiuti, compreso il reato di deposito incontrollato non connotato da una volontà esclusivamente dismissiva dei rifiuti, che, per la sua episodicità, esaurisce gli effetti della condotta fin dal momento dell’abbandono e non presuppone una successiva attività gestoria volta al recupero o allo smaltimento, hanno natura permanente quando l’attività illecita sia prodromica al successivo recupero o smaltimento delle cose abbandonate, sicché, in tal caso, la condotta cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio” (Sez. 3, n. 8088 del 13/01/2022, Franceschetti, Rv. 282916 e Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014, Ottonello, Rv. 260011).

3.    Considerazioni conclusive.

In aderenza a tali principi, la Suprema Corte conclude che l‘attività di recupero rifiuti effettuata dalla società ricorrente anche in relazione alla messa in riserva nell’area non autorizzata prospiciente l’impianto, area condotta in locazione dalla stessa società, era ancora certamente in essere all’epoca del sopralluogo effettuato nel dicembre 2013 indipendentemente dalle date del (reiterato) deposito dei tre cumuli nell’unico sito, sicché il termine di prescrizione non era decorso al momento dell’esercizio dell’azione relativa alla contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato.

Con tali premesse, la Corte di Cassazione respinge il ricorso difensivo e conferma, quindi, la responsabilità anche a titolo di illecito amministrativo dipendente da reato, ai sensi del d.lgs. 231/2001.

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