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Corruzione e appalti pubblici: la Cassazione torna sui confini applicativi delle fattispecie

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Corruzione e appalti pubblici: la Cassazione torna sui confini applicativi delle fattispecie

Corte di Cassazione, VI Sez., 16 gennaio 2025 n. 1909/2025 (udienza 13/11/2024)

Di recente, la Corte di Cassazione ha ribadito la distinzione tra la corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p. e la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio dell’art. 319 c.p.

La vicenda verteva sugli atti corruttivi di pubblici funzionari di un Comune nella gestione di commesse pubbliche, ove è stato precisato che per la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio non è sufficiente la violazione del generale dovere di imparzialità e correttezza dell’attività amministrativa, mentre sarebbe necessario “accertare se l’atto sia stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale e se il pubblico agente, pur muovendosi nei confini di tale potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore“. Di seguito un’analisi della pronuncia.

1. Il caso

Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Lecce ha confermato la condanna di un assessore di un Comune per il delitto di partecipazione ad un’associazione per delinquere costituita tra il sindaco ed altri componenti della giunta municipale e finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, nonché per due episodi di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.

La Corte d’appello ha altresì confermato la condanna di altri imputati per uno di quegli episodi di corruzione, nella loro rispettiva qualità di presidente del consiglio di amministrazione e di responsabile tecnico della ditta aggiudicataria dell’appalto per il servizio d’igiene urbana di quel Comune, accusati di aver corrisposto del denaro al Sindaco ed ai suoi sodali in cambio di provvedimenti amministrativi illegittimi e, comunque, di indebiti favori.

È stato proposto ricorso difensivo lamentando, fra l’altro, l’erronea qualificazione giuridica dei singoli episodi corruttivi ai sensi dell’art. 319, cod. pen., anziché come fatti di corruzione per l’esercizio della funzione, secondo il precedente art. 318.  Con ampie citazioni di giurisprudenza, la difesa ha osservato che la corruzione c.d. “propria” presuppone un accordo diretto alla commissione di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, dovendosi perciò accertare con rigore il contenuto in tal senso del patto. Tanto non sarebbe avvenuto, invece, nel caso di specie, non potendosi ritenere atto contrario ai doveri d’ufficio il libero esercizio del diritto di voto compiuto dal ricorrente nella sua veste istituzionale.

2. Il ragionamento della Corte di Cassazione

Con riferimento a tale motivo di ricorso, la Cassazione si sofferma per un approfondimento necessario sul tema: se, cioè, essi debbano essere sussunti – come ivi si ritiene – nella fattispecie della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, prevista e punita dall’art. 319, cod. pen., o, piuttosto, in quella della corruzione per l’esercizio della funzione, di cui al precedente art. 318.

Sul punto, osserva la S.C., la Corte di appello non si sarebbe espressa con la necessaria precisione, richiamando alcuni precedenti di legittimità e sembrando dar rilievo decisivo al principio, ivi affermato, per cui la corruzione “propria” non presupponga necessariamente la contrarietà dell’atto dell’agente pubblico alla specifica disciplina normativa di riferimento, quale che ne sia il rango, e dunque potendo assumere rilevanza anche la violazione del generale dovere d’imparzialità e correttezza dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97, Cost.

Si tratta, a ben vedere, di un’interpretazione giurisprudenziale che è stata progressivamente “raffinata”, come afferma la Cassazione, ma sarebbe meglio definirla come superata.

Prima di indicare l’impostazione più recente, è d’uopo introdurre la questione ermeneutica in esame.

L’art. 318 c.p. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l’intesa programmatica – l’impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunché -, previene la compravendita degli atti d’ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta, pertanto, segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva), da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa (Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2019, n. 18125).

Sotto altro profilo, se la fattispecie di reato di cui all’art. 319 c.p. è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella di cui all’art. 318 c.p., è necessario che l’atto contrario ai doveri d’ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell’art. 318 c.p. Dirimente, sul punto, è la giurisprudenza che afferma come: “sul piano probatorio, occorre procedere alla rigorosa determinazione del contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico funzionario alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avuto riguardo in particolare al movente ed alle specifiche aspettative del privato, alla condotta serbata dall’agente pubblico ed alle modalità di corresponsione a questi del prezzo della corruttela (così, Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2019, n. 18125).”

Considerazioni conclusive

Sulla base di tali premesse, la S.C. nella vicenda in esame ha chiarito come l’accettazione di un’indebita remunerazione integra la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.) se, in concreto, l’esercizio dell’attività del pubblico funzionario sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare. Occorre, cioè, in altri e più semplici termini, “accertare se l’atto sia stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale e se il pubblico agente, pur muovendosi nei confini di tale potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore; diversamente, qualora non sia stato violato alcun dovere specifico e l’atto compiuto realizzi ugualmente l’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, si deve ritenere integrato il reato di cui all’art. 318, cod. pen.” (in tema, tra altre: Sez. 6, n. 44142 del 24/05/2023, Di Guardo, Rv. 285366).

Avv. Adamo Brunetti

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