La “colpa di organizzazione” e l’accertamento della responsabilità 231 dell’ente.
20/03/2024 2024-03-20 9:21La “colpa di organizzazione” e l’accertamento della responsabilità 231 dell’ente.
La “colpa di organizzazione” e l’accertamento della responsabilità 231 dell’ente.
Breve commento a Cassazione Penale, Sez. IV, 28 dicembre 2023 (ud. 5 ottobre 2023), n. 514
Una recente sentenza della Corte di Cassazione affronta il tema della c.d. colpa di organizzazione, di cui al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e del ruolo del modello di organizzazione, gestione e controllo.
In dettaglio, il principio di diritto enunciato prevede che: “la sovrapposizione tra verificazione del reato presupposto e colpa di organizzazione non può essere automatica… la responsabilità organizzativa degli enti non può essere appiattita su un modello di responsabilità sostanzialmente oggettiva”, ribaltando nel caso esaminato le conclusioni a cui era pervenuto il giudice del merito, anche di secondo grado, relativamente all’”automatismo” per il quale l’ente, in carenza o inefficacia del Modello 231, è per ciò solo responsabile.
Di seguito un’analisi della pronuncia, con specifico riferimento al decisum sulla responsabilità amministrativa da reato dell’ente.
1. Il caso.
In sede di vaglio di legittimità, la Sezione Quarta si è pronunciata sulla sentenza della Corte d’appello di Firenze che confermava la responsabilità ex art. 25 septies del d.lgs. 231/2001 scaturita dalla morte di un dipendente con conseguente condanna di alcuni soggetti per omicidio colposo.
La vittima, operaio, durante lo svolgimento del lavoro di sfalcio e raccolta di piante, veniva investita da materiale legnoso e cadeva così in una fossetta di scolo, riportando lesioni che, circa un mese dopo l’evento, ne determinavano il decesso.
In primo ed in secondo grado veniva condannata la legale rappresentante dell’ente in quanto datore di lavoro e l’ente stesso veniva ritenuto responsabile ai sensi del d.lgs. 231/2001.
2. Le argomentazioni della Cassazione.
Innanzitutto, premette la Corte, citando principi consolidati già dalla nota pronuncia Thyssen: “la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli” (cfr. S.U. n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113; similmente Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni e altri, Rv. 276596).
Prosegue precisando che l’illecito dell’ente è una fattispecie complessa, di cui il reato presupposto è uno degli elementi essenziali, insieme alla colpa di organizzazione, che “rende l’illecito stesso “proprio” dell’ente, in ossequio al principio sancito dall’art. 27 Cost”.
Del pari, la Cassazione ribadisce che “la colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, implica che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto e all’art. 30 d.lgs. n. 81/2008 non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione”, concludendo che “il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o I’inefficace attuazione del modello organizzativo che sia stato adottato dall’ente”.
Ne discende che – pur costituendo la mancata adozione o l’inefficace attuazione elemento indiziario del ricorrere della colpa di organizzazione in caso di illecito presupposto – nondimeno, compito del giudice di merito dovrà essere quello di verificare se nel concreto l’assetto organizzativo dell’ente nel suo complesso sia così deficitario e lacunoso da aver determinato il verificarsi del reato effettivamente realizzatosi.
Si tratta, indubbiamente, di una conclusione derivante da principi consolidati ma che è sempre bene che venga evidenziata.
In un simile argomentare della Cassazione, il punto dirimente è stato da parte dei giudici affermare che il Modello 231 non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul DVR di cui agli artt. 17, 18, 28 e 29 d.lgs. n. 81/2008, avendo tali strumenti (il modello 231 ed il DVR) anche finalità diverse.
Mentre, infatti, il DVR individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli, il Modello 231 rappresenta uno strumento di governo del rischio di commissione di reati da parte di taluno dei soggetti previsti dall’art. 5 del Decreto 231.
In altri termini, come afferma la pronuncia in commento, con riguardo – tra gli altri – ai reati in materia di sicurezza sul lavoro, “esso delinea l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici, discendenti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi” contenuta nel DVR.
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Altro argomento affrontato nella sentenza è quello, sempre attuale in materia di reati-presupposto a matrice colposa, dell’interesse dell’ente alla commissione del reato presupposto.
La fattispecie dell’illecito dell’ente, infatti, “presuppone una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Ciò è richiesto perché il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica; con la previsione del collegamento teleologico, ha escluso che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (e, in ipotesi, persino in contrasto con questi ultimi)”.
La Corte, quindi, prosegue: “All’interesse viene per lo più attribuita un’accezione soggettivizzante, nel senso che esso viene inteso come allusivo alla finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicché è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto. Ciò diversamente dal vantaggio, che è proprio l’utilità che l’ente ricava dal reato commesso”.
3. Conclusioni
In punto di fatto, è chiaro l’errore del giudice di secondo grado, posto che ha ritenuto sufficiente dimostrare l’esistenza di un sistema organizzativo della società carente in relazione agli obiettivi di garanzia in materia di infortuni sul lavoro” e questo perché l’ente si era dotato “di tutti i documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio (Documento Valutazione Rischi, Piano Operative di Sicurezza)” ma “le misure adottate in concrete per il controllo dell’applicazione delle prescrizioni previste dai piani di sicurezza, erano in realtà del tutto carenti e inadeguate a far fronte alle singole situazioni di pericolo che avrebbero potuto presentarsi di volta in volta e che le scelte di organizzazione del lavoro effettivamente adottate dalla società erano in vero adottate per privilegiare le esigenze di produttività e di profitto con la minimizzazione dei costi a scapito della sicurezza dei lavoratori“.
È evidente in tutto ciò la confusione operata dalla sentenza di appello tra gli obblighi facenti capo al datore di lavoro ed i profili di colpa della società incolpata che ne ha determinato l’annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione.
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Avv. Adamo Brunetti